Articoli di Giovanni Papini

1955


in "Schegge":
La bambina seduta in terra
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXX, fasc. 127, p. 3
Data: 29 maggio 1955


pag. 3




   Nella mia vecchia casa di Via de' Bardi la stanza d'entratura aveva una finestra un po' alta, con l'inferriata, che dava sopra una distesa di tetti che le antiche piogge avevano tappezzato di grommosità verdicce e nericce.
   Mia moglie, un po' per nascondere le magagne dell'ammattonato secolare, ma soprattutto pensando ai giochi e alle corse delle bambine, aveva ricoperto tutto il pavimento con una rozza stoia di cocco da poche lire. Ma quella entratura rimaneva sempre un po' triste e mezza buia, anche nelle giornate più belle, specialmente la mattina presto quando uscivo di casa per andare alla Biblioteca Nazionale.
   Quando tornavo, poco dopo mezzogiorno, mi attendeva quasi sempre una felice sorpresa.
   Il sole, a mezzo del suo cammino, era riuscito a mandare un riflesso vaporosamente biondo attraverso l'inferriata e quel riflesso illuminava il biondo capo della mia bambina più piccola, seduta sul tappeto vicino alla finestra, in modo che tutta la stanza era trasfigurata da quel doppio albore d'oro e non pareva più quella che avevo lasciata, nella mezz'ombra, poche ore prima.
   La mia Giocondina stava con la testa bassa e i suoi capelli fini, lunghi e ondati sembravano, in quella carezza di luce. qualcosa di angelicamente raro e prezioso. Ma la bambina, al suono del mio saluto, alzava gli occhi e presentava al mio sguardo un'altra e forse maggiore meraviglia. Si aprivano dinanzi a me le due grandi, le due immense, le due stupende pupille azzurre, di un celeste celestiale, fatto di mestizia beata, di tenerezza aspettante, di soavità severa, di affettuoso splendore. Quegli occhi, d'una trasparenza di liquido cielo, mi guardavano da lontano, come se tornassero in quel momento da un altro mondo.
   Nel grembo del suo vestitino bianco e presso i suoi piedi erano sparpagliati i semplici e i poveri tesori, che la tenevano ferma e silenziosa per mattinate intere. C'era un ditale d'oro falso che ripigliava i toni del sole e dei capelli; c'erano dei nastrini di seta azzurra che ripigliavano il colore delle pupille; delle strisce di carta rosa che ripigliavano il colore dei suoi ditini; un gomitolo di lana rossa che ripigliava il colore dei suoi labbri. C'erano anche fettucce di raso nero, rocchetti vuoti, matassine di spago, ritagli di trine, scatole di cartone bianco piene di vecchi bottoni e di perline di vetro color limone e color corallo. Null'altro. Eppure quel piccolo e umile mondo di bricciche inutili bastava alla felicità della sua lunga e placida contemplazione quotidiana.
   Mi sorrideva e mi salutava con gioiosa voce, ma non mostrava nessuna voglia di alzarsi da terra e d'interrompere il suo misterioso affaccendarsi tra quelle minuzie sparse presso di lei.
   Il suo pensoso silenzio di tante ore stupiva noi tutti, la sua meditabonda serenità mi commoveva, l'infinita dolcezza paziente dei suoi sguardi m'inteneriva. Pensavo tra me, sorridendo di quelle immaginazioni, che da grande la mia Giocondina sarebbe diventata una donna di genio, un'artista famosa, forse una santa. E non potevo fare a meno di baciare quel suo capino biondo illuminato e riscaldato dal bacio del sole.
   Mi accorgo che a questa mia visione lontana di felicità puerile mancano molti tocchi che la farebbero più fedele, più perfetta, più indicibilmente dolorosa, più ineffabilmente amorosa.
   Se la visione è un po' offuscata la colpa non è della distanza degli anni, ma di certe stilla calde che velano i poveri occhi stanchi del padre orfano.


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